Il problema della utilizzazione degli spazi condominiali per il parcheggio dell’auto spesso comporta inevitabili contrasti tra i comunisti, in quanto è inscindibilmente connesso, da un lato, alla titolarità di una posizione legittimante ad occupare quello spazio e, dall’altro, al rispetto di norme comportamentali la cui violazione, come è ovvio, non riesce a trovare sempre tutela nelle aule di giustizia, spesso per la estemporaneità e la sporadicità degli abusi. Così la saltuaria occupazione di uno spazio condominiale con un’auto, da parte di un condomino o di un terzo, benché formalmente vietata dall’assemblea, dal regolamento condominiale o addirittura dal magistrato non comporterà il ricorso all’autorità giudiziaria – non in grado di dare risposte immediate alle istanze di tutela dei diritti – ma, più spesso, alla ritorsione ed a quella “sotterranea guerra” tra condomini, potenzialmente e pericolosamente idonea a degenerare in fatti di rilevanza penale. Comunque, in linea di diritto, va detto che il cortile condominiale e la sua utilizzazione sono regolati da precise disposizioni di legge, tendenti a salvaguardare il diritto di ciascuno. L’articolo 1118 c.c. al primo comma sancisce il cosiddetto principio di proporzionalità, secondo il quale ciascun condomino ha, sulle cose comuni, un diritto proporzionale al valore della proprietà individuale di cui è titolare1. Naturalmente ciò è vero, salvo che il titolo non disponga altrimenti. Particolare rilevanza assume quindi il valore delle unità immobiliari poiché in base ad esse, ed alloro reciproco rapporto, si determineranno i diritti dei condomini sulle parti comuni e, quindi, anche sul cortile. Non vi sono problemi quando, come nella maggior parte dei casi, il regolamento di condominio sia stato preventivamente predisposto dal costruttore poiché sarà questo il titolo che determinerà i millesimi di proprietà del cortile per ciascun condomino. Diverso è il caso in cui tale regolamento non ci sia, poiché nasce il problema delle modalità di determinazione del valore dei singoli appartamenti. In materia uno dei più problematici aspetti riguarda la possibilità di calcolare il valore dei singoli appartamenti soltanto in relazione alla semplice costruzione (c.d.: valore allo stato grezzo) oppure anche in base ai lavori di abbellimento e di rifinitura effettuati negli appartamenti dai singoli proprietari. La soluzione più plausibile sembra quella di utilizzare, ai fini che qui interessano, i criteri contenuti nell’articolo 68 disp. att.c.c.2. Tale articolo dispone i criteri da seguire per la formazione del regolamento di condominio ma può ritenersi applicabile per tutti i casi in cui si necessiti una valutazione degli appartamenti; in questo modo, in base al suo terzo comma, si può evincere che il valore dei singoli appartamenti più adeguato (in relazione ai diritti sulle parti condominiali) è quello calcolato soltanto in base alla costruzione allo stato grezzo. Il comma secondo dell’articolo 1118 c.c. recita: “Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione”. Questa norma, che si innesta nel più generale problema della rinunziabilità ai diritti reali, prevede una indissolubile unione tra le singole proprietà esclusive e le parti condominiali: da un lato, quindi, il singolo condomino dovrà sempre versare le spese per le parti condominiali (anche se vi rinuncia), dall’altro lato, egli vi potrà (definitivamente) rinunciare soltanto allorquando rinuncerà anche alla sua proprietà individuale. Infine deve farsi una notazione in ordine all’esatta definizione del termine “spese” ai fini dell’applicabilità dell’articolo in commento; tali spese, cui non si può rinunciare, sono soltanto quelle di tipo straordinario cioè quelle che determinano la migliore conservazione della res comune ed, infatti, viene sancito il principio, secondo cui nella particolare materia del condominio d’edifici, per il combinato disposto degli articoli 1118 comma secondo e 1104 c.c., tra le spese indicate in questo ultimo soltanto quelle per la “conservazione” della cosa comune costituiscono obligationes propter rem al cui pagamento nessun condomino può sottrarsi, neppure rinunziando alla comproprietà sulla cosa comune stessa se non rinunziando contestualmente anche al diritto, dacché la prima delle norme indicate nulla dispone, e significativamente, per il condominio, sulle spese relative al “godimento” delle cose comuni, considerate invece dalla seconda per la comunione….3. Ma un altro principio è bene richiamare in tema di diritti sulle parti comuni ed è quello di indivisibilità, stabilito dall’articolo 1119 c.c., a mente del quale Le parti comuni dell’ edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino.
La prescrizione contenuta in questa norma non stabilisce un divieto assoluto alla divisione delle parti comuni condominiali, ma piuttosto sembra richiedere un accordo tra i condomini, e tale accordo può riguardare non solo, com’è evidente, la divisione dei beni comuni ma può anche avere ad oggetto, in senso inverso, la sottoposizione al regime di indivisibilità di altri beni: I condomini possono convenire in forza della loro autonomia negoziate, che alcuni beni costituiscano parti comuni, al fine di conferire loro una destinazione indisponibile senza il consenso di tutti e di estendere loro il regime della indivisibilità ed inseparabilità che è proprio delle parti comuni indicate dall’articolo 1117 c.c. e che impedisce al singolo condomino di disporre di queste parti, indipendentemente dalla sua proprietà esclusiva, senza il consenso degli altri4. Di fondamentale importanza ai fini dell’applicazione dell’articolo 1119 risulta essere la valutazione di uso della cosa5 che ciascun condomino può fare: “L’articolo 1119 c.c. non stabilisce l’indivisibilità assoluta delle parti comuni dell’edificio condominiale, ma ne subordina la divisibilità all’espressa e rigorosa condizione che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo a ciascun condomino l’uso della proprietà singola servita dalla dividenda parte comune. La giurisprudenza della Suprema Corte, che qui si ribadisce6, ha precisato e chiarito che, poiché l’uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità di uso di cui parla il citato articolo 1119 ai fini della divisibilità delle cose stesse, va valutata, oltre che con riferimento all’originaria consistenza e destinazione della cosa comune, all’uopo considerata nella sua funzionalità più che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto tra le utilità che i singoli condomini ritraevano da essa ai fini del godimento delle parti dell’edificio di proprietà esclusiva e le utilità che, agli stessi fini, ne ricaverebbero dopo la divisione. Occorre, cioè, che questa non incida sull’essenza e funzione delle porzioni della cosa già comune, di guisa che ciascuna di esse risulti idonea a realizzare il servizio a vantaggio dei beni di proprietà esclusiva cui era destinato il tutto, senza che il godimento di essi ne risulti pregiudicato o diminuito7. Oltre che nei casi in cui si diminuisca la comodità della cosa, vi è un’altra ipotesi in cui si ritiene che la divisione ex articolo 1119 non sia consentita e cioè quando effettuare tale divisione si rendano necessarie opere e spese eccezionali. L’articolo 1119 c.c. non vieta la divisione delle parti comuni dell’edificio, ma la consente unicamente allorché la stessa possa farsi senza rendere incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino. La norma è stata generalmente interpretata nel senso che la divisione non è consentita allorché per attuarla si renda necessaria una spesa sproporzionata rispetto al valore della cosa. (Trib. Padova 21 marzo 1986)8. Per quanto concerne l’uso delle parti comuni non vi è una specifica norma in tema di condominio per cui è necessario rifarsi a quanto stabilito dal codice in tema di comunione all’articolo 11029. In primo luogo viene in considerazione il fatto che l’uso della cosa comune può essere effettuato da ciascun partecipante entro due precisi limiti: il rispetto della destinazione della cosa: tale limite, che può definirsi oggettivo, discende direttamente dalla natura della cosa, dalla sua normale utilizzazione e dalla, conseguente, aspettativa che tale destinazione resti immutata nel tempo10; il diritto degli altri compartecipi: è questo il limite soggettivo che impone che l’uso della cosa comune (sia pur effettuato nell’ambito della destinazione della cosa stessa) non sia talmente intenso da rendere impossibile agli altri compartecipi di usarne in maniera uguale11; è evidente come tale limite imponga sia che l’uso del singolo non deteriori la cosa12 sia che non la modifichi in maniera sostanziale13. All’interno di questi due limiti non esiste però soltanto un uso che può essere effettuato dai partecipanti alla comunione ma si deve invece parlare di una pluralità di usi: uso promiscuo: è il caso ordinario in cui tutti i partecipanti usano la cosa comune contemporaneamente in quanto la: cosa stessa permette tale utilizzazione; uso frazionato: i partecipanti (anche se è possibile l’uso promiscuo della cosa comune) possono accordarsi per dividersi l’uso della cosa ed averne un’utilità individuale; tale frazionamento può avvenire secondo le due tradizionali modalità: vi può essere un frazionamento spaziale quando la cosa viene fisicamente divisa e ad ogni partecipante viene assegnata in uso una pane della res risultante dal frazionamento; vi può essere inoltre un frazionamento temporale quando le parti si accordano per usare della cosa in tempi differenti, in questo caso solitamente si parla di uso turnario della cosa comune 14; uso indiretto: solitamente quando non sia possibile l’uso promiscuo né l’uso frazionato (a causa della conformazione della cosa anche rapportata al numero di aventi diritto) si può sempre accordarsi per un uso della cosa non direttamente collegato ai partecipanti come nel caso, tipico, di locali comuni (solitamente
scantinati o negozi a piano terra oppure locali e appartamento del portiere quando tale servizio sia stato eliminato) concessi in godimento a terzi e da cui i partecipanti ricevono un’utilità indiretta consistente nel canone di locazione. L’ultimo comma dell’articolo 1102 c.c. vieta l’estensione del diritto di un partecipante sulla cosa comune (a danno degli altri) a meno che non si sia in presenza di un mutamento del titolo: tale mutamento può avvenire attraverso l’istituto dell’usucapione15. In base alla tradizionale struttura di tale istituto (articoli 1158 ss. c.c.) l’acquisto di un bene immobile per usucapione avviene mediante il “possesso continuato per vent’anni”16. In virtù dell’estrema genericità del comma secondo dell’articolo 1102 c.c. la giurisprudenza non ritiene necessario, ai fini del verificarsi dell’usucapione nell’ambito di una comunione, l’interversione del possesso17 anche se non è sufficiente la constatazione del mero non uso da parte degli altri partecipanti: Il condomino, per usucapire la cosa di proprietà comune, non deve dimostrare l’interversione del possesso, ma deve fornire la prova di avere sottratto la cosa all’uso comune per il periodo utile all’usucapione e, cioè, di una condotta univocamente diretta a rilevare che nel condominio si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, e non la prova del mero non uso della cosa da parte degli altri condomini18. Giova infine fare riferimento ad un caso particolare di usucapione (che definirei invisibile): è il caso in cui l’originario unico proprietario cede i singoli appartamenti ai nuovi condomini senza fare riferimento,. nei contratti di trasferimento, alle parti comuni; in questo modo gli acquirenti possono non rendersi conto che, nel silenzio del titolo, essi hanno comunque acquistato, pro quota, le parti comuni del fabbricato (ex articolo 1117 c.c.). Se allora succede che, ciò nonostante, il lastrico solare od anche (più raramente) lo scantinato o una parte del cortile rimanga nel possesso effettivo del costruttore-venditore ecco che comincia a decorrere19 il termine valido ai fini dell’usucapione in favore di questo ultimo e, dopo venti anni, il bene comune sarà trasferito (per la seconda volta) nuovamente in capo al costruttore senza che nessuno se ne sia reso conto! L’ultimo divieto contenuto nel comma secondo dell’articolo 1120 c.c. riguarda le innovazioni che rendano le parti comuni “inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condominio”. La caratteristica principale di tale divieto sembra essere insita nell’inservibilità, causata dalla innovazione alla res comune, anche se si verifichi nei confronti di un singolo condomino: viene qui naturale richiamare l’altro concetto contenuto nell’articolo 1119 c.c., ove viene sancita la regola della indivisibilità, di parti comuni dell’edificio, ove la divisione renda “più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”. La differenza tra le due fattispecie è evidente20: mentre nel caso della divisione di parti comuni è sufficiente una maggiore scomodità, nel caso delle innovazioni esse sono vietate soltanto se rendano la cosa comune inservibile il che conduce ad un concetto di assolutezza che non comprende quindi i semplici peggioramenti nell’uso e godimento della res; i quali peggioramenti, quindi, non determinano l’impossibilità di effettuare l’innovazione. Ora, passando nel dettaglio del tema che ci occupa, è bene evidenziare che, con riferimento alle parti comuni dell’edificio, il termine “godimento” deve essere riferito a due differenti realtà: quella della utilizzazione obbiettiva della res e quella del suo godimento soggettivo in senso proprio. Con la prima si deve intendere l’utilità prodotta, indipendentemente da qualsiasi attività umana, in favore delle unità immobiliari dall’unione materiale o dalla destinazione funzionale della cosa, nella fattispecie dal cortile condominiale, mentre la seconda accezione si identifica nell’uso delle parti comuni quale effetto dell’attività personale dei titolari dei piani o porzioni di piano. In via generale accade spesso che talune delle parti comuni elencate nell’art. 1117 c.c., solitamente destinate a fornire utilità oggettiva ai condomini, sono, talora, suscettibili anche di uso soggettivo, diverso, cioè, da quello connesso con la funzione peculiare di tali parti ed indipendente dalla relativa funzione strumentale. Esempio classico è quello dei cortili che, funzionalmente destinati a fornire aria e luce al fabbricato (destinazione “oggettiva”) ben possono esser destinati (anche) ad un uso soggettivo (parcheggio auto). E ciò assume particolare rilievo in ordine alla trasferibilità dell’appartamento unitamente al posto auto condominiale, che generalmente si assume inscindibilmente collegato al primo. Invero un box auto (o la porzione di autorimessa o lo spazio di parcheggio), gravato da un vincolo pertinenziale e pubblicistico di destinazione, non può essere alienato con separato atto – rispetto all’appartamento cui è collegato – in quanto il predetto vincolo a finalità pubblicistica si concreta sia nella oggettiva inalterabile destinazione di parcheggio, che – in primis – nella concreta modalità d’uso, consistente nella reale utilizzazione come parcheggio da parte di persona materialmente qualificata a quell’uso dalla
condizione di proprietario stesso o di altro appartamento sito nel medesimo edificio condominiale di ubicazione del box-auto (o posto auto) gravato dal suddetto vmcolo21. In altre parole il posto auto pertinenza dell’appartamento non potrà essere alienato separatamente da esso ed anzi, normalmente, il posto auto è oggetto di trasferimento consequenziale al trasferimento della proprietà del piano o porzione di piano. Ma tale principio può subire un’eccezione, o meglio una compressione, allorché sia riconosciuta la possibilità, ed è riconosciuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte22, che il posto auto, “ex titulo”, formi, quanto al relativo godimento soggettivo, oggetto di diversa pattuizione. Viene riconosciuta, cioè, la possibilità di escludere dal trasferimento dell’appartamento la relativa quota di comproprietà dell’uso (soggettivo) come parcheggio, specie qualora il cortile stesso non risulti sufficiente ad ospitare le autovetture di tutti i condomini. Peraltro, nell’ipotesi di cessione a terzi di un uso siffatto della cosa comune, non è al singolo condomino che spetta la legittimazione alla cessione stessa, essendo, all’uopo, necessario il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, giusta disposto dell’art. 1108 comma 3 c.c. Con riferimento alla controversia avente ad oggetto l’interpretazione di una clausola regolamentare che si limiti a stabilire il diritto ad ottenere l’assegnazione di un posto per la sosta auto in favore del “proprietario di ogni unità immobiliare che la abiti”, deve ritenersi che la nozione di abitazione di cui alla norma di regolamento condominiale prescinda da qualsiasi riferimento alla natura occasionale o stabile della stessa, ben potendo un condomino “abitare” un’unità immobiliare pur se non in maniera continuativa; d’altra parte, risulta conforme al diritto di comproprietà in questione un uso della cosa comune che non sia vincolato in maniera rigida ad una determinata circostanza (abitazione costante) ma tenga conto delle diverse e mutevoli esigenze di un condominio, il quale riamane tale, ossia nel pieno godimento dei suoi diritti, anche se non risieda stabilmente in un determinato luogo (Tribunale Napoli, 18 dicembre2000). In tema di condominio l’art. 1122 c.c. – nel fare divieto al condomino di eseguire, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, opere che rechino danno alle cose comuni – intende riferirsi non solo a quello materiale, incidente fisicamente sulla cosa comune ma anche a quello funzionale, incidente cioè sulle utilità che dai beni comuni possono conseguirsi (nella specie, è stato ritenuto che arrecava danno alle cose comuni la realizzazione da parte di un condomino di una struttura delimitante il posto-auto di proprietà esclusiva, che rendeva impossibile l’accesso comune antistante ai singoli posti auto limitando altresì l’utilizzo della caldaia) (Cassazione 10 settembre 2004, n. 182149. Il procedimento di volontaria giurisdizione, previsto dall’art. 1105 comma 4 c.c., per la nomina d’un amministratore “ad acta” con il compito di assegnare i posti auto ai singoli condomini nelle aree condominiali, è precluso in caso di esistenza di una deliberazione condominiale che regolamenti in modo specifico l’uso del parcheggio nelle aree comuni e le modalità d’uso dei servizi comuni rientrano nella competenza del giudice di pace (Tribunale Napoli, 24 febbraio 2003). Le cause inerenti le misure e le modalità d’uso dei servizi condominiali, rientranti ex art. 7 n. 2 c.p.c. nella competenza per materia del giudice di pace, hanno origine in tutti i casi in cui siano in discussione, oltrechè i limiti nascenti dalla fonte che regolamenta detti servizi, anche l’esistenza stessa di tale disciplina rimessa all’autonomia privatistica (fattispecie in materia di parcheggio di auto in piazzale condominiale relativamente al quale era carente qualsiasi idonea regolamentazione). (Tribunale Firenze, 19 maggio 1998). Il comproprietario di un cortile destinato al parcheggio degli autoveicoli dei condomini non può utilizzarne una parte per la costruzione di una autorimessa per la propria auto, comportando questa una alterazione sia della consistenza strutturale della cosa comune che della destinazione funzionale della stessa, così utilizzata, oltre che per la sosta della autovettura per il deposito dei relativi accessori e di altri beni (Cassazione 21 maggio 1994, n. 4996). È legittima e non viola il diritto di comproprietà dei singoli sulla cosa comune la delibera dell’assemblea condominiale che subordini al pagamento di una quota mensile il diritto dei condomini al parcheggio dell’auto nel cortile condominiale (nel caso di specie, le dimensioni del cortile condominiale non avrebbero permesso l’esercizio di tale diritto a tutti i condomini). (Tribunale Napoli, 24 ottobre 1984)
Avv Rodolfo Cusano
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